Attualmente il termine viene usato per indicare proprio la nobiltà guerriera.
I samurai che non servivano un daimyō perché era morto o perché ne avevano perso il favore, o la fiducia, erano chiamati rōnin, letteralmente “uomo onda”, che intende libero da vincoli, ma assume sempre un significato dispregiativo.
I samurai costituivano una casta colta, che oltre alle arti marziali, direttamente connesse con la loro professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodō. Durante l’era Tokugawa persero gradualmente la loro funzione militare divenendo dei semplici Rōnin che spesso si abbandonavano a saccheggi e barbarie. Verso la fine del periodo Edo, i samurai erano essenzialmente designati come i burocrati al servizio dello shōgun o di un daimyō, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali, per sottolineare la loro appartenenza di casta.
Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale. Ciò nonostante il bushidō, rigido codice d’onore dei samurai, è sopravvissuto ed è ancora, nella società giapponese odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento simile al ruolo svolto dai principi etici religiosi nelle società occidentali attuali.
14 cose che (forse) non sai sui samurai. I vincoli di fedeltà, il suicidio rituale, il durissimo addestramento e le sue sanguinose derive: vita e morte dei samurai, servi guerrieri e i signori di arco e katana del periodo d’oro del Giappone.
< 1/15 > Addestrati al dovere e alla fedeltà assoluta: servi per definizione e prima di tutto, ma anche membri di un’élite dai mille privilegi. L’universo congelato nel tempo dei samurai ha ispirato interi filoni di letteratura e cinematografia: ma chi erano davvero i samurai? Ecco la loro storia e varie curiosità sulla vita (e sulla morte) dei signori della guerra giapponesi.
< 2/15 > Qual è l’origine del nome Samurai? Saburau vuol dire “servire”: è da qui che nasce il termine samurai, il nome dei servi guerrieri che, a partire dall’XI-XII secolo, si imposero nel tessuto sociale nipponico sotto la guida dello shogun, il dittatore militare che sottrasse potere all’imperatore (divenuta una figura per lo più simbolica).
< 3/15 > Spietati Nel XII secolo, con le isole giapponesi reduci da un millennio di lotte intestine, i samurai si distinsero per essere i fedeli servitori dei daimyō, i feudatari locali che rispondevano allo shogun. Erano una sorta di spietata cavalleria, con regole assai diverse da quelle sviluppatesi nel medioevo occidentale.
Nella foto, Koboto Santaro, il comandante in capo dell’esercito dello shogun. Era il 1863.
< 4/15 > Prima l’arco, poi la spada. La prima differenza con i cavalieri occidentali è nell’arma prediletta dei samurai: non la katana (la spada), come si potrebbe pensare, ma l’arco, snobbato dalla cavalleria europea perché considerato “poco nobile”. Era proprio lo shigetou, l’arco asimmetrico giapponese, lungo 2 metri e fatto di legno laminato e laccato, l’arma di esclusiva pertinenza dei samurai. Lanciava anche frecce infuocate a un centinaio di metri di distanza, e fino al XIII secolo fu tenuta in maggiore considerazione della spada.
Completavano il corredo la lunga katana e la corta wakizashi (lo spadino utilizzato anche per suicidarsi), nonché ventagli da guerra con i bordi affilati come coltelli. Per diverse epoche della storia giapponese i samurai furono i soli a poter portare armi.
< 5/15 > Per sempre fedeli… anche nella morte. Il guerriero giapponese viveva (e moriva) secondo un rigido codice di comportamento, il bushidō (la via del guerriero), che regolava il rapporto unico e inscindibile tra il samurai e il suo daimyō. Alla base di questo codice c’era la fedeltà assoluta, una rigida definizione di onore e il sacrificio del bene del singolo in favore del benessere comune. È questa l’etica alla base delle azioni dei kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale e di cui si avvertono strascichi in alcune aziende nipponiche.
Qualora un’offesa o una grave colpa avesse incrinato questo rapporto, c’era sempre una via per salvare l’onore: il seppuku o harakiri, il suicidio rituale (il gesto che sta compiendo l’uomo vestito di bianco, in questa foto del 1880 circa)
< 6/15 > Morte in diretta. Anche l’estremo gesto di orgoglio e libertà di un samurai seguiva regole rigidamente codificate. Il sacrificio si doveva consumare davanti a testimoni utilizzando il pugnale (tantō) o la spada corta (wakizashi) ed eseguendo un taglio a “L”, che partiva dall’ombelico e si allungava da sinistra a destra, e poi verso l’alto.
I piedi con le punte rivolte verso il basso garantivano che il moribondo cadesse in avanti, coprendo lo scempio di sangue e budella; la presenza di testimoni e del kaishakunin, l’assistente incaricato di finire il ferito con un colpo di katana al collo, assicurava che la vittima non soffrisse ulteriormente (e non avesse ripensamenti).
Il ventre era ritenuto la sede dell’anima: squarciarlo davanti a fidati testimoni equivaleva a dimostrare che la propria era pulita.
< 7/15 > Infanzia perduta. L’addestramento dei rampolli delle famiglie guerriere per diventare un samurai iniziava a 3 anni. Fino ai 7 anni, completata l’alfabetizzazione, si imparava a non avere paura della morte, a obbedire al proprio signore e a praticare esercizi per il controllo della mente e del corpo (kata). Quindi si apprendeva l’uso di arco e frecce, della spada di legno e di metallo leggero. Si imparava a cavalcare e a combattere contro nemici immaginari, e ci si sottoponeva a docce gelate sotto cascate o nella neve per temprare il fisico agli stimoli estremi.
A 12 anni si sapevano ormai usare anche frecce e katana: si iniziava a combattere nelle retrovie, e anche ad uccidere.
< 8/15 > Sesso (gay) e spade. Il legame con gli addestratori poteva diventare molto speciale. In epoca feudale le pratiche sessuali tra uomini erano all’ordine del giorno per i guerrieri samurai.
Secondo la tradizione dello shudo – da wakashudo (la “Via degli adolescenti”) – i giovani trascorrevano diversi anni a contatto con uomini più grandi, che oltre ad iniziarli alle tecniche di combattimento li introducevano al mondo del sesso: gli apprendisti samurai ne divenivano allora gli amanti ufficiali, in un rapporto che era riconosciuto ed esigeva, naturalmente, fedeltà assoluta.
< 9/15 > Sesso (etero) e donne samurai. In una società così permeata di ideali maschili, non c’era spazio per l’amore. La moglie dei samurai veniva scelta a tavolino e doveva appartenere a una stirpe guerriera, oppure essere “adottata” da una famiglia di samurai prima del matrimonio, che ne nobilitasse le origini.
Alle spose dei samurai toccava però un “privilegio” (si fa per dire): col matrimonio guadagnavano il diritto di praticare anch’esse il suicidio rituale, il jigai, con un taglio alla gola.
Nel Giappone medievale si potevano incontrare anche donne samurai: addestrate nei valori e nell’arte marziali della casta fin da giovanissima età, venivano chiamate a difendere le terre del proprio signore quando gli uomini erano in battaglia, o badavano ai propri possedimenti assaltando con spade e coltelli qualunque nemico capitasse a tiro.
< 10/15 > Feroci e spiantati. Se è vero che i samurai appartenevano alla classe sociale più elevata (ilbuke, la nobiltà d’armi che comprendeva circa il 7% della popolazione), non si può certo dire che si arricchissero. Lavoravano per la gloria del daimyō, ma il loro stipendio si limitava a una paga in riso puramente simbolica. Per mantenere il proprio status sociale senza perdere la faccia, i samurai che non erano già ricchi di famiglia si arrangiavano come potevano con lavoretti secondari, come la fabbricazione di ombrellini o stuzzicadenti. Li facevano vendere ad altri, però, per non compromettersi troppo.
Nella foto, 3 samurai fotografati nel 1865 circa.
< 11/15 > Gli unici con un cognome. A fronte di una vita di sobrietà, i samurai avevano però diritto a diversi privilegi. Uno di questi era la possibilità di avere un cognome, che la gente comune in Giappone non aveva (e che conquistò solo a fine Ottocento, con il declino del Giappone feudale).
< 12/15 > A fil di lama. Un altro privilegio, meno conosciuto e molto spesso abusato, era quello del kirisute gomen, ossia l'”autorizzazione a tagliare e abbandonare”. Il samurai poteva cioè passare a fil di spada chiunque ritenesse gli avesse mancato di rispetto, se di rango inferiore. L’unico scrupolo era riuscire a dimostrare successivamente, in sede legale, il torto subito.
< 13/15 > Reietti e feroci. Quando un daimyō (il signore) cadeva in disgrazia, o la sua casata si estingueva, i samurai al suo servizio non avevano più un padrone. E diventavano mine vaganti: venivano chiamati ronin, “uomini-onda”, guerrieri fuori casta e – soprattutto nell’era Tokugawa, l’epoca di massimo isolamento e splendore del Giappone, tra il 1603 e il 1868 – giravano per le campagne intimidendo i contadini e saccheggiando villaggi, in cerca di un nuovo signore a cui prestare servizio.
Questi guerrieri alla deriva erano disprezzati dai samurai veri e propri, e spesso presi di mira: nessuno era chiamato a rispondere della loro uccisione.
< 14/15 > I nonni della mafia giapponese. Ma i ronin avevano anche un altro ruolo. Capitava che si unissero a mercanti, contadini e artigiani per difendere i villaggi dai saccheggi dei briganti, insegnando la guerra e le arti marziali e costituendo una sorta di guardia del corpo auto organizzata. Si pensa che questa specie di polizia privata possa essere all’origine della yakuza, la moderna mafia giapponese, i cui affiliati hanno in comune con i samurai un forte senso di appartenenza ai clan e una lealtà assoluta verso il proprio “boss”.
< 15/15 > La fine. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’apertura del Giappone al mondo occidentale e la creazione di un esercito di leva regolare, la casta dei samurai si rivelò anacronistica e fuori dal tempo. Due leggi, sotto l’Imperatore Meiji (1852-1912) segnarono la fine dei samurai: una, l’editto Dampatsurei, obbligò i servi guerrieri a rinunciare al codino e a portare i capelli all’occidentale. L’altra, meno di “facciata” e ancora più determinante, fu l’editto Haitorei, che li privò del diritto di portare armi in pubblico. Ai samurai senza katana non rimase che una piccola pensione statale, e il rifugio nel folclore.