di Massimo Veltri
“Chiudete gli occhi e al mio via riapriteli“, esortò la guida, nel pullman, quando provenienti da un incontro con i beduini, dall’alto di un vallone, di un wadi, c’eravamo ‘abbeverati’ alla vista dello sfolgorante monastero di San Giorgio, arrampicato sulle pendici opposte. La costante, frequente, puntuale presenza bizantina.
Eravamo quasi al tramonto, partiti al mattino dall’albergo sul Mar Morto, la massima depressione terrestre, con tanto di bagno all’alba, sulla sponda opposta la Giordania, fra vento, freddo, galleggiamento (e difficoltà a venir fuori… ) e capillare visita a Masada, l’altura su cui Erode costruì la sua cittadella, ultima roccaforte contro i romani che, riporta Giuseppe Flavio passato dalle fila ebraiche a quelle romane, la tennero per tre anni sotto assedio prima di raderla al suolo. Il tempo era brutto, nuvoloso, freddo. E aprimmo, a comando, gli occhi. Quattordici pellegrini occidentali. Più l’autista ashkenazita ceco, più la guida, Mordecai, avvocato penalista di professione guida per passione, ashkenazita polacco, in continua competizione con i sefarditi mediterranei. Di fronte, fra qualche filo d’un sole coperto e alla fine della giornata, brillò la Cupola d’Oro della Moschea di Omar, sulla Spianata del Tempio, al di là del Muro del Pianto: Gerusalemme.
Tutto quello che c’era da leggere era stato letto, il massimo della documentazione era stato acquisito. Sia geograficamente, sia storicamente, sia letterariamente parlando: non già alle soglie del viaggio, ma lungo anni e anni di approccio e di amore per una terra. Jan Assmann riporta la domanda di Jacques Derrida: “Siamo noi Greci? Siamo Ebrei?”. E Heinrich Heine, prima di lui: “Tutti gli uomini sono o ebrei o elleni, uomini dalle pulsioni ascetiche, iconoclaste, assetati di spiritualità, oppure uomini dal temperamento sereno, fieri di aver dispiegato le loro potenzialità e realistici”, quando ancora propendeva per l’opzione ellenistica, prima di rivolgersi al ‘Dio dei nostri padri’. E Carandini, e lo stesso Assmann… Il marxista Carandini che incontra Matte Blanco, Jung, Durkheim, Levi Bruhl… e si convince che non tutto è riconducibile al materialismo dialettico, che esistono sfere dell’essere, e del sapere, che non è possibile approcciare con rigore scientifico oggettuale. E Freud, il suo saggio sul monoteismo, su Mosè. Il Mosè che Assmann ha studiato a fondo, ponendolo al centro della sua poderosa riflessione su monoteismo versus politeismo: il Mosè egizio, il faraone Akhenaton, il vecchio e il nuovo testamento. E la letteratura: Philip Roth, Joseph Roth, Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman, Isaac Singer… E gli uomini di scienza… Ma sapere e leggere è cosa diversa dal vedere e immergersi. La politica e la religione: Zagrebelsky, fra gli altri, l’antropologia in generale, pongono il problema su quali delle due è nata per prima. Lì, in Israele, nacquero insieme e lo stato divenne uno stato teocratico. Di un popolo che è il popolo eletto e nello stesso tempo reca addosso l’accusa di deicidio. Un popolo che afferma e ostenta la sua diversità, la sua superiorità, che reca addosso come stimmate il suo implacabile genocidio nel tempo, la sua persecuzione lungo i secoli, i millenni. Che introdusse i ghetti, per differenziarsi dagli altri, altri che poi fecero ben altri ghetti… Che non sa come uscire dall’isolamento culturale, politico, religioso, che non vuole uscirne, e aspetta giorno dopo giorno l’ennesima soluzione finale, l’ennesimo olocausto, il nuovo messia. Unica enclave non musulmana, circondata dall’Islam, unico avamposto dell’Occidente nella terra di Allah. La sua forza, il suo limite. La Moschea di Omar, la sua cupola sfolgorante che gli armeni seppero decorare con maestria, al cui interno c’è la pietra del sacrificio di Isacco, da cui Maometto volò verso Allah sul suo cavallo bianco. Gerusalemme che non nasce lungo un fiume. Dentro le mura di Solimano e dei Crociati, delle chiese, delle botteghe, delle basiliche bizantine, accanto al primo e al secondo tempio, distrutti, nei quadranti cristiano, musulmano, armeno, bizantino, fra la chiesa dell’ultima cena, i vicoli dei mercati, la chiesa di Elena la madre di Costantino, la vera chiave di volta del successo cristiano, imponendo la religione di Gesù all’immenso impero romano, gli etiopi, i copti, il Santo Sepolcro che racchiude il Golgota e l’urna funeraria da dove Cristo sarebbe risorto… e le stazioni della via crucis, dove incontri un pezzo di mitteleuropa, una casa albergo austriaca. E Getsemani, gli Ulivi, la porta da cui Cristo entrò in Gerusalemme, chiusa da quattrocento anni dai musulmani, la tomba di Maria, le cisterne, i cimiteri, i mosaici, gli angoli che ti pare d’essere a Napoli, a Palermo, a Taranto, a Cosenza…, la Gerusalemme antica, raccolta, seria, viva, colorata, chiassosa, schioppettante, unmelting pot che neanche Londra o Manhattan, e quella moderna costruita male, un’edilizia non curata e un traffico da impazzire. Il protettorato inglese agli inizi del 1900 dispose il rivestimento con una pietra locale di tutte le costruzioni future, a attestare e valorizzare il carattere storico, eterno, della città. Alla periferia c’è Betlemme, una chiesa enorme costruita sopra il luogo della natività, così come a Nazareth, non molto lontana. Da anni c’è un vibrante braccio di ferro per edificare una moschea che si vorrebbe di dimensioni maggiori della chiesa cristiana. I crociati, gli armeni, gli ortodossi, i musulmani, i copti, qualche druso, qualche etiope. Gli armeni furono il primo popolo che riconobbe la divinità di Cristo e perciò godono di particolari attribuzioni. Andare e tornare da Betlemme vuol dire passare la frontiera, cambiare dimensione, mondo, così come andare al Muro del Pianto, così come andare alla Spianata del Tempio, un luogo non luogo, sospeso nel tempo e nello spazio: domina il silenzio in un’atmosfera rarefatta, pare un quadro metafisico di De Chirico, un’opera di Palladio. La guida, in pratica unico rapporto umano con l’esterno, se si esclude, per poche ore, l’incontro con un giovane cristiano copto alla Chiesa della Natività, più che altro attento, però, a rigide forme protocollari e poco propenso a digressioni di qualsiasi tipo. Tanto è chiassoso, caotico, un vero e proprio sukh, il Santo Sepolcro, chiesa crociata in cui dall’alba al tramonto si susseguono frenetiche cerimonie delle varie confessioni fra loro antagoniste, pesantemente ornato da icone, candelabri, vestigia dorate…, e le cui chiavi sono affidate in mani musulmane, tanto è austera algida respingente, l’enclave musulmana. Ma a Betlemme, ingorgata all’inverosimile da pellegrini d’ogni dove, con file oceaniche, e merchandising annesso, più ancora che a Nazareth, si avverte la presenza, l’esistenza palestinese. Tutti difendono e affermano la loro paternità, il diritto pieno a presidiare quei posti sacri, lungo il filo d’un equilibrio che si percepisce precario, instabile. Senza tacere della situazione politica. Lunghe e tese le discussioni con la guida che, se pure non ortodosso, non chassid, non con i cernecchi e la chippah e la torah in mano e tutto il resto, era una continua fonte di dibattito e di confronto. “L’ebreo errante, l’usuraio, il deforme, colui che si dedica a pratiche esoteriche e diaboliche, il deicida… quel mostro che i vostri persecutori vi buttano addosso, vi hanno cucito addosso. Gli zar, gli spagnoli, i progrom, la shoah, il nazismo… chi mai può mettere in discussione tutto questo, malgrado quei quattro cialtroni negazionisti che ancora ci sono…”, dicevo a tavola la sera fra un falafel un kebab, un petto di pollo e salse e salsine e spezie e verdure d’ogni tipo, tutto koshar ovviamente, “E’ un qualcosa di indefinibile, di ingiustificabile, di inqualificabile, di incomprensibile. Ma ciò detto: vi aiuta, vi serve, mantenervi pervicacemente, rigidamente, attestati su una posizione di intransigenza che non vi fa dialogare con nessuno? Che vi fa leggere e osservare, così com’è, il Vecchio Testamento, la Torah, il Pentateuco, non già discuterli, commentarli, interpretarli, che non vi fa allacciare rapporti politici e diplomatici con qualcuno dei paesi che vi stanno attorno, che non vi conduca a alleanze, che vi faccia allentare la morsa di una diversità e di una superiorità fin troppo ostentate, che fanno il paio con il vittimismo?” E lui: “Non puoi capire, non potete capire… , che cos’è un ebreo, quello che abbiamo subìto, che ci aspetta, l’atmosfera di ansia, di terrore, che ci attanaglia ogni giorno, l’instabilità, l’insicurezza, l’ineludibilità quotidiane del massacro prossimo venturo. Un ebreo va sempre di corsa: la vita è breve ma le cose da vedere e da vivere sono tante“. Io: “E i palestinesi non hanno diritto ad avere la loro terra?” “Voi vedete solo la loro propaganda distorta, non quello che giorno dopo giorno subiamo noi“, chiude Mordecai. Un giorno salimmo sulle alture del Golan, cime innevate sullo sfondo, una diga in costruzione, una fabbrica di cioccolata, fra accampamenti militari, cingolati, mitra, tute mimetiche, a pattugliare quella Giordania che vorrebbe riprendersi i territori sottratti, che vorrebbe Israele cancellata. “L’America vi proteggerà fino alla fine”, dico. E lui: “Però gli arabi sono con Al Qaeda e hanno il petrolio: l’occidente chi sceglierà? Noi siamo l’unico popolo che è rimasto quello delle origini da più di duemila anni: se molliamo d’un centimetro scompariamo“. Prima d’arrivare a Gerusalemme avevamo visitato il paesino, e la sinagoga, dove nacque la qabala, un tesoro di azzurri, di simboli, di esoterismi; il monte Carmelo diviso fra cittadella dell’innovazione e comunità Ba’hai; Cafarnao; Tiberiade; Cesarea e il porto romano; città preromaniche; Jaffa alla periferia di Tel Aviv; Haifa, l’acquedotto romano; Akko, più conosciuta come San Giovanni d’Acri, con imponenti vestigia crociate; il Giordano, il tempio a Pan; paesini arabi, con cous cous, spezie, moschee, minareti, caravanserragli… e Canaan, i pesci, l’acqua e il vino… Dovunque moltitudini di russi. Il deserto con i rotoli del Mar Morto (datati a pochi decenni dopo Cristo) e testimonianze di questa costola esoterica e misteriosa dell’ebraismo, gli Esseni, e il simbolo di Israele: l’altura di Masada, il loro orgoglio all’indipendenza e all’autodeterminazione.
Dovunque un’aria, colori, profumi, densi, diversi, intrisi di dolore, di polvere, di sete. L’acqua come onnipresente essenza e metafora della vita. Ogni centimetro quadrato di vegetazione, se pure stenta, irrigata con tubicini. Datteri, palme, stambecchi, una natura non bella a fronte d’una storia gloriosa, dolorosa. Che volle, con ikibbutz, un’organizzazione dello stato, uno stato che non ha ancora settanta anni, di tipo socialista, dopo gli utopismi sionisti, Hertzl e tutti gli altri, sperimentare una sorta di comunità, che abbiamo visto in pratica dismessi o quasi, comunque al di fuori da quella ipotesi alternativa da cui era nata. Sulle colline che s’affacciano su Gerusalemme, fra bagliori colorati, richiami di muezzin, profumi che veicolano il vento e la pioggia sottile, è tradizione che chi ci arrivi la prima volta saluti la città, beva un vino augurale, conservi il calice, con nome e data sopra. Da quelle colline si domina pure il museo della Shoah, un edificio impressionante, a forma di parallelepipedo a sezione triangolare. Un triangolo di dimensioni costanti, alto, lungo centinaia di metri, con una ragnatela di corridoi laterali, e immagini, reperti, filmati, libri, giornali… Un triangolo che s’allarga man mano che Gerusalemme si fa più vicina, una volta superato l’agghiacciante struggente monumento, con milioni di lucine e una voce che recita tutti i nomi di tutti i bimbi uccisi dai nazisti. E’ lì, a Gerusalemme, che il popolo ebreo tende, è a Gerusalemme la salvezza. Là dove c’è il muro delle lamentazioni, che la sera dello shabbat è meta di ortodossi e di non ortodossi, di giovani festanti e allegri, di ragazzine con divisa e mitra, di coloro che pregano dondolando contro quel muro ch’era parte del tempio di Salomone e che al di là è in mano musulmana, vestiti con i loro abiti migliori, i loro rotoli della Torah, i loro scialli rituali, i loro cappelli, le loro marsine, i cernecchi e tutt’il resto. Là dove c’è, gigantesco, il candelabro di David, la menorah, dono della corona d’Inghilterra, che torreggia davanti il Parlamento, la Knesset: vedi giovani e meno giovani, donne, uomini, agitarsi e correre a pregare, in casa o in sinagoga, al Muro. E dove, a ridosso delle mura che cingono la città vecchia, quasi fossimo a Lublino, a Lodz o in qualche remoto villaggio del centroeuropa di duecento anni fa, c’è uno shtetl, un agglomerato rurale in cui il ‘violinista sul tetto’, descritto minuziosamente da Isaac Singer, strimpella le sue corde, simbolo dell’Ebreo, dell’ebraismo, del loro avanzare sempre in bilico, sempre nel pericolo, ma pure con leggerezza (il famoso umorismo yiddish), e la sera del venerdì, quando comincia lo shabbat (lì è tutto anticipato, non si può perder tempo), un profumo di pane ubriacante s’aggira per viuzze e piazzette: il giorno dopo tutto si ferma. In onore a YHV, che loro manco possono pronunciare, né possono raffigurare. I chassidim devono solo studiare, leggere la bibbia: a mantenerli ci pensa lo stato, così decise Ben Gurion, così è oggi. Un paese grande più o meno come la Toscana, per buona metà desertico, porta dell’Oriente, luogo d’incroci, di sovrapposizioni, di divisioni, di sincretismi, di origini mesopotamiche (la mezzaluna fertile), dove è nato il mondo che conosciamo. Il politeismo aveva concluso la sua fase storica. Il monoteismo era il nuovo, la modernità, la nascita di una civiltà nuova. Ma l’ebraismo, se pure monoteista, era confinato, geograficamente e culturalmente, in un’aria da dove difficilmente si sarebbe irradiato nel mondo. Il cristianesimo, smussando e superando nel tempo le asperità del Vecchio Testamento, attraverso operazioni politiche accorte irruppe in Europa. E fu tutta un’altra storia.
Grazie all’Autorità israeliana per l’archeologia e a Google, i rotoli del mar Morto si possono ora studiare anche sul web. Li ha scoperti per caso 65 anni fa un pastore beduino che cercava la sua capra ed ora, dopo un lavoro durato due anni, e’ finalmente on line il sito www.deadseascrolls.org.il dove sono raccolte 5.000 immagini di elevata qualità che mostrano frammenti di quei testi, conservatisi miracolosamente grazie alla estrema siccità del clima in quella regione. Le immagini comprendono fra l’altro brani della Bibbia (fra cui una porzione della Genesi e i 10 comandamenti) e lettere scritte da ribelli ebrei inseguiti dalle legioni romane negli anni 132-35 d.C. I rotoli del mar Morto originali sono conservati nel Museo Israel di Gerusalemme