Donne che scoprono di essere sieropositive al momento del parto (se vanno in ospedale) o quando tale condizione si riscontra nel neonato. Nel villaggio dove presto la mia opera di volontario i 92 bambini sono quasi tutti orfani, perché la madre, ignara, è morta di AIDS dopo il parto. Nell’ambulatorio aperto da poco vedo a volte arrivare persone con più di una patologia infettiva che potrebbe far sospettare la presenza di un’immunodeficienza da HIV. Sono convinto che alcuni di questi, se esaminati e trovati positivi, rimarrebbero allibiti e sorpresi. Questo già mi fa pensare che devo modificare il mio approccio ai pazienti. Man mano che m’introduco nell’ambiente africano, vado in cerca di alcune realtà che, invece, mostrano come il problema HIV non è del tutto ignorato. Più di una volta ho partecipato, con mia sorpresa, ad alcuni incontri di donne sieropositive riunite in associazione per l’informazione ed educazione in merito. Vengono da lontano a piedi, hanno una segretaria che documenta gli interventi e infine raccoglie un piccolo contributo in denaro che ognuno versa per la causa. L’ultimo straordinario evento l’ho visto pochi giorni fa, quando siamo andati al distretto sanitario per un controllo di due nostri bambini. Seduti davanti all’edificio, c’erano una quarantina di donne e uomini che ascoltavano attentamente una giovane e bella operatrice che comunicava loro delle informazioni. Parlava in Kimeru, lingua locale, perciò non potevo capire, ma l’argomento è diventato evidente quando lei, aperta una confezione, si è messa a spiegare dettagliatamente come si usa un preservativo. Gli sguardi delle persone erano attenti, nonostante sfuggisse a qualcuno una scontata battuta spiritosa. Alla fine c’è stata una distribuzione massiva di preservativi senza alcun imbarazzo, casomai con un sorriso. L’evento per me è di quelli da ricordare, anzitutto perché da noi in Italia non mi risulta che un’iniziativa del genere avvenga, poi perché conferma che l’Africa non è così indietro come si crede. Vedo intorno al nostro villaggio, costruito confortevole dagli italiani, una popolazione che vive in baracche senza luce, acqua né confort, eppure capace di trovare il tempo per imparare a difendersi da un micidiale virus. Mai come ora vale il detto: “Se lo conosci, lo eviti!”.
di Nicola Samà, medico ospedaliero in pensione, che da alcuni anni pratica attività di volontariato in Kenya.
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