Un viaggio in Iran e’ seguire le tracce di Ciro e Dario, i grandi condottieri dell’Impero Persiano, resi immortali dalle opere da loro volute, fra tutte l’imponente Perpepoli edificata per celebrare sacri riti ma anche per essere di monito ai nemici della Persia. E’ ammirare i tesori dell’architettura e dell’arte islamica che si esprime attraverso moschee esteticamente perfette: minareti, cupole e portali intarsiati fino all’ultimo centimetro cubo di piastrelle colorate, mosaici, marmi e altre pietre, onorano il Profeta con la loro armonia.
E’ commuoversi sulle tombe dei poeti farsi, venerati e amati come santi da chi ha ricevuto in dono i loro versi che riaffermano, in maniera raffinata, i capisaldi della cultura persiana: la lotta del bene contro il male, della luce contro l’oscurita’, la saggezza dell’amore.
Ma soprattutto e’ la scoperta di un popolo aperto, gentile ed ospitale al punto da sorprendere ed imbarazzare il visitatore oggetto di tante attenzioni. Un popolo che cerca modernita’, informazione, avido di comunicare con l’altra meta’ del mondo, quell’Occidente da cui sente di essere ingiustamente etichettato come un ”canaglia” per azioni e parole avulse alla millenaria cultura persiana e al cuore delle sue genti.
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Raccontare l’Iran e’ impresa ardua per chi lo ha visitato. Occorre prima almeno scalfire il muro di diffidenza e pregiudizio maturato sulle base di un’ informazione superficiale e occidentalocentrica, coadiuvata da un regime che sembra voler fare dell’isolamento un punto di forza verso le istanze di modernizzazione e democrazia.
Persia, Iran
di Massimo Veltri
Sulla via per Qom, la seconda città santa dell’Iran, lungo l’altopiano che s’allargava a destra e a sinistra della striscia d’asfalto diritta diritta sulla quale scorrevano camion, tir e qualche auto vedemmo all’improvviso filo spinato, torrette, postazioni antiaeree. Eravamo da poco passati per Abyaneh, un villaggio d’altri tempi, in cui brulicava un viavai di turisti iraniani, era venerdì, attraverso vicoli, macerie, polvere, case di paglia e argilla storte, precarie, le più disabitate e abbandonate, la moschea, linda e pulita con le immagini dei martiri e quelle, immancabili, di Khomeini alle spalle di Kamanei, a guidarlo per mano, a indicargli infallibile la via. Ci attendeva Kashan, una città grande, dove avremmo visitato le tipiche case residenziali del 1600 persiano, ricche case di commercianti e notabili, esempi di come si poteva vivere nel deserto. La guida ci disse di non utilizzare le macchine fotografiche: eravamo là dove si conducevano gli esperimenti nucleari. Era l’ultimo giorno del viaggio e fu il primo e l’unico esempio in cui ci accorgemmo che l’Iran è un paese a rischio. Con l’eccezione, correggo, di quella volta a Shiraz, la città dei poeti, dei giardini, delle rose, quando uno venne a fotografarci mentre dialogavamo fittamente con la guida su sufismo, dervisci, Zoroastro, Alì, il nipote del Profeta. E qualcuno di noi temette che la polizia segreta ci stesse sorvegliando e schedando.
Persia, Iran dal 1929, il nome più proprio: l’errore più marchiano che commisi fu quello di ritenere che avrei visitato un paese islamico tout court. Non già quello di andare in un paese anti occidentale, pericoloso, arretrato. Mai m’era passato per la testa: la concezione occidentalcentrica non mi è mai appartenuta, né le informazioni in nostro possesso, mediamente, sono tali da farci ritenere che lì la guerra è vicina. Tornato in Italia leggo due notizie: la prima un reportage da Teheran (quindici milioni di abitanti) in cui si parla di scioperi nel bazaar per l’aumento del costo della vita, che il regime ha fatto passare per proteste contro il famigerato film americano, quello blasfemo – la guida ci aveva correttamente informato. La seconda riferisce di una associazione sorta fra scrittori e intellettuali ebrei e palestinesi (c’è David Grossmann fra questi, quello che ha perduto il figlio per fuoco amico) per favorire il processo di pace e di convivenza fra i popoli di credo diversi. E mi ritorna in mente l’enorme striscione che sventolava fra la bandiera verde dell’Islam, bandiera rossa dei martiri, tricolore dell’Iran, nel cortile del santuario del profeta Daniele, in lingua araba e lingua inglese: La nostra scuola insegna che è meglio morire da martiri, piuttosto che vivere da prigionieri. E le strade tappezzate, dovunque, delle foto di ragazzi con mitra in mano, sguardo acceso, braccia protese: quelli mandati alla morte da un integralismo più proprio del sunnismo, conservatore e integralista, piuttosto che dal ramo sciita, di cui l’Iran è storicamente parte, più tollerante, più ‘laico’. E invece pure in Iran prevale, dal dopo shah Pahlavi, la cultura dell’intolleranza e dell’aggressione. Pure nella gente, fra i milioni di giovani il cui tasso di acculturazione e scolarizzazione è altissimo, e che sono parte prevalente della popolazione? Città gremite di ragazzi disinvolti e allegri, negozi di elettronica con l’i-pad in vetrina, accanto a venditori di tappeti e artigianato, chioschi di spremute di melagrano, biciclette, macchine strombazzanti, giardini e viali, picnic dovunque e in tutte le ore del giorno porterebbero a dir di no. Quante volte ragazzi in jeans e t-shirt e ragazze con appena una traccia di velo in testa, truccate e bellissime, ci hanno fermato salutandoci e chiedendoci cosa ne pensavamo dell’Iran e di essere messaggeri in occidente della loro ‘normalità’, del loro diritto a non essere ghettizzati, denunciando la tenaglia in cui sono stretti: regime da una parte disinformazione e malinformazione dall’altra.
Quanti ne abbiamo visti, a centinaia, nei giardini e nei patii intorno i monumenti funebri in memoria dei loro poeti del 1200-1300, dove s’incontrano, leggono le poesie o chiacchierano serenamente. Poesie scritte nell’alfabeto arabo, ché prima del Profeta, in Persia c’era l’alfabeto cuneiforme e per il linguaggio nazionale, il Farsi, furono adottati i simboli arabi. E prima di Maometto, nel periodo della dinastia sasanide, l’ultima persiana, la religione era quella zoroastriana. quella del fuoco, quella dei tre magi, monoteista, nata nel nord ovest del paese, nell’attuale Azerbaijan, della svastica, del sole. Prima, con Ciro, Dario, Serse, Artaserse, Cambise, non ci fu una religione di stato, si era in presenza d’una nazione laica, in un certo qual senso libera da opzioni fideistiche. L’Islam irruppe e sconvolse tutto. L’Islam che sincretizzò, com’è di norma, elementi diversi del cristianesimo, dell’ebraismo, di miti e riti del deserto, pagani e antichi, ‘adattandoli’ alle genti di quelle latitudini, credendo di proporre la summa religiosa, la sintesi più avanzate di tutte. Di Susa, l’antica capitale con Pasargade, non rimane traccia se non qualche pietra qua e là, uno o due capitelli sbrecciati nella polvere: si dissolse nelle spire del tempo. Solo la tomba di Ciro si salvò, ché fu detto fosse la tomba della madre di Salomone. Persepoli era invece la capitale di primavera e per duecento anni, fino a che Alessandro non la conquistò, restò un esempio mirabile di convivenza nell’immenso impero, di magnificenza, di pace. Ancora si possono ammirare i bassorilievi che mostrano con i loro costumi i popoli che annualmente andavano a recar tributo e onori all’imperatore. Persepoli che Reza violentò facendo abbattere pilastri e colonne per far spazio quando, alle porte della sua defenestrazione, invitò i potenti della terra a rinverdire un improbabile sfarzo dei tempi gloriosi. Persepoli che si erge magnifica nell’ immensa spianata silente, fra qualche turista ammaliato e il volteggiare di volatili alti. Fra figure mitologiche di pietra, colonne altissime, teatri di gloria scomparsa. Persepoli che in La via per Oxiana Robert Byron ottanta anni fa descrisse con saccenteria e distacco. Là hai netta la percezione, quasi l’epifania, la rivelazione, che la storia del mondo scritta da ovest è una storia parziale, monca, e ti rendi conto di quanto sarebbe importante una collaborazione integrata fra studiosi di questa parte della Mesopotamia con quelli dell’Oltreadriatico per averere una visione più completa degli sviluppi del mondo. E di come questo sia, nei fatti, impedito da un muro fra i più resistenti eretto di qua e di là e che tronca i collegamenti.
Non si può pensare di avvicinarsi a capire l’Iran se non si mettono in fila un paio di dati. Un paese di grande cultura e storia. Gli incontri-scontri con Roma, la capitolazione con Alessandro. L’impero, esteso fino all’India. Islamizzato ma non da rinnegare o oscurare il proprio passato, tant’è che ci volle l’anno Mille perché si gettassero le basi per una comprensione-condivisione di un islamismo persiano. I mongoli, con Genghiz Khan prima e Tamerlano poi che irruppero e fecero strame. Infine lo shah Reza. Che letteralmente svendette il paese mentre luce e acqua e strade erano a livelli di basso medioevo, in un paese tenuto sotto il tallone dell’ignoranza e dell’arretratezza. Politiche occidentali franco americane e opposizioni laiche rovesciarono il regime ma prevalse la scelta religiosa con Khomeini. Da allora è nato un altro paese, modernizzato, infrastrutturato, scolarizzato, cui si è accompagnata la dura intransigenza oltre l’aggressività del fanatismo religioso. Le condutture petrolifere che per chilometri e chilometri attraversano il deserto, i fuochi che svettano alti, i villaggi che si snodano lunghe le vie, case basse ininterrotte, i caravanserraglio, gli hamman, i bazaar, gli acquedotti romani, i mulini a acqua, le cupole delle moschee, i minareti, le torri del fuoco, le torri del silenzio, il verde, i pistacchi, lo zafferano, le miniature, le policromie e i mille odore delle spezie, sono l’ambiente, il paesaggio dell’Iran. Un paesaggio che si snoda con selvaggia bellezza fra monti in alta quota, neri, brulli, laghi salati sconfinati, fiumi seccati o sbarrati. Come a Ishafan, la città più bella, e insieme a Shiran, moderna, dell’Iran, con la piazza più grande del mondo, quattro volte San Pietro, seconda solo a Tien Amen, su cui sono i capolavori nei secoli dell’arte islamica, iraniana, turcomanna, circondata da portici e palazzi bassissimi, vuoti: stanno lì per non dare l’idea d’uno spazio aperto e per ‘proteggere’ i bazaar e i monumenti, le madrase e gli hamman. A Ishafan il fiume non c’è più, da qualche anno. Sbarrato a monte per una centrale idroelettrica e per un’acciaieria, mostra il suo greto come fosse un uomo nudo, accompagnato ai lati da splendidi lungofiume, solcato da magnifici antichi ponti. Ma il fiume non c’è. Mentre sulle sponde dei fiumi, di altri fiumi argentini e puliti, ci sono bassorilievi che testimoniano delle sconfitte dell’imperatore romano Valeriano, e tutta la serie di mulini costruiti dai romani sconfitti. Le tombe rupestri dei grandi imperatori, alle porte di Persepoli, sono degne di quelle dei faraoni, l’unico ziqqurat ancora in piedi pare più antico di quelli babilonesi, mentre le torri del silenzio, nel cuore dello zoroastrismo, a Yazd, ospitavano i corpi dei defunti perché gli avvoltoi li consumassero. Nelle città torride – con 45 e più gradi – le torri del vento servivano a far circolare l’aria attraverso camini a sezione esagonale.
Tappe lunghe, lunghissime, di seicento e più chilometri in cui le discussioni con la guida si susseguivano, in un paesaggio inusitato, straniante, disturbante. E i volti, i vestiti… un intero repertorio dell’Asia e del Medioriente.
La guida, un giovane dottore di ricerca nelle culture mediterranee, italiano perfetto, mai stato in Italia. Che ancora aveva negli occhi e sul proprio corpo le ferite della guerra con l’Iraq, quando la sua casa insieme a tante altre fu sconvolta dalle bombe. E noi a pendere dalle sue labbra, ammaliati dalla sua passione, dal suo sapere, dai misteri del suo paese. Dalle spiegazioni sugli stili e sui simboli delle moschee, sulle cupole rotonde e su quelle a cipolla, sugli spazi che si succedono e si distribuiscono seconda regole precise, sull’unico ritratto del Profeta custodito su una parete di una moschea, sulla concezione della donna da parte dell’Islam, sul misticismo, sull’arte… Dal quadrato che è la figura geometrica della condizione umana, dell’uomo che aspira al cerchio che è simbolo della divinità, della perfezione, dell’assoluto. Dai tappeti dei nomadi e dai tappeti di città, dalla comunità ebraica e da quella armena, perfettamente inserite. Un paese dove ci sono testimonianze archeologiche, non solo di insediamenti quanto di manufatti, che risalgono a 5000 anni prima di Cristo, dove approdarono gli Ariani dal nord, e perciò Persia, e perciò Iran. Dove le carovane si muovevano lente da est verso ovest lungo la via della seta e facevano sosta nei caravanserraglio con animali, merci e uomini. Alcuni testimonianze mute e abbandonati ormai, altri recuperati al loro splendore unico, inimitabile. E ci volle il Mille perché il califfato di Baghdad desse il via libera all’opera, al lavoro di Ferouzi, il loro Dante, per l’unificazione, la codificazione della lingua, coerente con il Corano e il passato persiano. E la musica, dissi io? E ci portò in un vecchio hamman, splendido, pareva d’essere immersi in un quadro di Delacroix, adibito a tè house, dove anche lui si esibì in musiche e canti turchi, persiani, armeni. arabi, afghani. E nel conservatorio di Ishafan, dove il maestro compositore ci deliziò con una performance trascinante.
Iran. Dove le scuole coraniche sono annesse alle moschee e il muezin chiama sempre meno: si preferisce pregare in casa… c’è una sorta di sciopero contro il regime, le moschee sono sempre più deserte.
E Qom, alla fine, devastata dal terremoto. Dove tutta la notte, in attesa d’andare a Teheran per volare verso l’Italia, assistemmo alla sosta brulicante di fedeli davanti la tomba sontuosa di cupole e minareti scintillanti della sorella di un Imam di secoli fa, Qom, la culla dell’integralismo e del conservatorismo, dov’è nato Khomeini e dov’è vivissimo il culto per Khomeini.
Il turismo c’è da qualche decennio: si vivono i disagi di un visitatore occidentale – ma d’altronde Bruce Chatwin e Robert Byron ci vissero in condizioni ben peggiori – e pare che il regime non faccia chi sa che cosa per favorirlo. Mentre il popolo vuole ben altro.
Internet, la storia, la globalizzazione, cambieranno le cose? La politica di pace avrà spazi e occasioni?
(L’articolo di Massimo Veltri e’ stato pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” l’11 novembre 2012).