“Tanah Air”, terra e acqua: così gli abitanti chiamano l’Indonesia, un enorme, sconfinato arcipelago, il più grande del mondo. Si estende su una superficie sterminata che va dall’Asia sudorientale all’Oceania, per questo i paesaggi che il paese offre sono i più disparati, così come le culture. Un viaggio alla scoperta di Giava e Bali, forse le più turistiche, ma anche le più ricche di storia e di fascino. Giava dove sorge, oltre al magnifico Monte Bromo, il tempio di Borobudur, e Bali, l’isola degli dei, intrisa di profonda spiritualità.
Giava, la regina dell’Indonesia, cuore economico del Paese, per visitare l’incantevole città di Yogyakarta, vero centro culturale e artistico giavanese, punto di partenza per raggiungere Borobudur, il monumento buddista più grande del mondo. È impressionante vederlo dal basso, ma ancora più emozionante è arrivare alla cima per vedere tutti i piccoli stupa situati al centro. Patrimonio Mondiale dell’Unesco, il monumento è decorato con bassorilievi che rappresentano scene della vita di Buddha.
Non può mancare l’escursione al Monte Bromo, vulcano attivo situato al centro del massiccio Tengger: qui avrete modo di affacciarvi all’interno del cratere per ammirarne i paesaggi incredibili, quando il sorgere del sole regala uno spettacolo suggestivo e indimenticabile.
Vista dall’alto Bali la si potrebbe scambiare per un dipinto: le risaie lungo i pendii sembrano orme lasciate da un gigante, i vulcani sembrano arrivare a toccare le nuvole, le foreste sono rigogliose e le spiagge sono bagnate dalle calde acque dell’Oceano Indiano.
Non a caso definita l’isola degli dei, la visita ha inizio da Ubud, il “centro degli artisti” situata a nord della capitale Denpasar. Oltre alle tante gallerie d’arte, la zona è famosa per gli imponenti scenari naturalistici con le famose terrazze coltivate a riso e per la moltitudine di templi induisti.
Da non perdere il tempio indù di Tanah Lot è uno di quegli spettacoli che durante un viaggio restano impressi come una tatuaggio nella memoria: unico nel suo genere e decisamente scenografico, si eleva su un promontorio roccioso a picco sul mare che viene completamente circondato dalle acque durante l’alta marea da sembrare quasi galleggiare. Quando c’è la bassa marea lo si può raggiungere a piedi, camminando su una striscia di terra che collega il tempio alla costa.
Un souvenir che non può mancare: il batik
Il termine “batik” – ciò che si disegna – deriva dalle parole indonesiane amba (scrivere) e titik (goccia).
Questa tecnica di pittura su stoffa era probabilmente già conosciuta e praticata dagli egiziani e fu introdotta nell’isola di Java tra il 300 e il 400 d.C. dai commercianti indiani e da “arte reale” per donne aristocratiche è diventata costume nazionale.
La pittura batik era, fino al tardo XVIII secolo, realizzata solo per l’uso delle comunità indonesiane locali per poi subire un’enorme diffusione intorno al 1800 quando, lungo la costa nord dell’isola di Java, molte città divennero centri di commercio del batik.
Il momento principale e più delicato è sicuramente la posa della cera con cui si coprono le parti del disegno che non si vogliono tingere, siano essi i contorni del disegno o parti di esso. La stesura della cera avviene con un attrezzo chiamato tjanting (canting), piccolo serbatoio metallico dotato di un manico di legno e di un beccuccio da cui fuoriesce la cera liquida e calda; il foro da cui fuoriesce la cera può essere di diverse dimensioni in modo da poter tracciare linee più o meno sottili. Esiste inoltre un modello di tjanting (canting) a più punte con cui è possibile tracciare linee parallele.
La tecnica pittorica batik è stata rivoluzionata dall’invenzione del cap, attrezzo che ricorda nella forma un ferro da stiro e che serve per stampare il disegno di cera sulla stoffa, cosa che permette di lavorare in modo molto più veloce che con il canting. Da qui la differenza tra il batik tulis (tulis: scrivere) e batik cap.
Una volta che la posa della cera è terminata si passa alla colorazione della stoffa. Nella produzione dei batik un’enorme rivoluzione si ebbe nel XIX secolo quando fu introdotta la stampa meccanica dei disegni sul tessuto eliminando completamente l’uso del tjanting (canting) e riducendo i tempi di realizzazione dei tessuti batik.